Quando un abecedario ti segna per sempre

Ricordo con precisione quando ho imparato a scrivere. Avevo cinque anni. Passavo ore seduta per terra sulle piastrelle marroni del salotto, ai piedi dell’enorme ficus tanto amato da mia madre, nell’angolo più luminoso della stanza, tra la finestra e la vetrata. Aperto di fronte a me, con le pagine stirate bene con le mani per eliminarne le gobbe centrali e riuscire a essere precisa, c’era il libro Roselline. A vederlo ora mi sembra un oggetto vezzoso da zie che ricamano centrini, ma allora fu magia pura.

Ricopiavo le greche con attenzione maniacale, le coloravo stando dentro ai bordi e poi passavo alle lettere. Non so esattamente come, ma grazie a quel libro sono riuscita ad imparare a leggere e scrivere prima di arrivare a scuola. Ero completamente conquistata e non ho mai smesso di esserlo. Quando tornavo a casa riaprivo i quaderni e facevo i compiti volentieri. E poi scrivevo anche per conto mio. Ho riempito di banalità quotidiane un numero considerevole di diari segreti che poi prontamente buttavo quando, a distanza di anni, li rileggevo e mi vergognavo della goffaggine e dell’inutilità di tutti quegli scarabocchi.

Non so perché, ma la parola scritta ha sempre esercitato un fascino enorme su di me. E’ strano, a volte mi inquieta anche un po’. Sin da piccola ho preferito leggere quello che altre persone scrivevano piuttosto che ascoltare quello che le persone intorno a me dicevano. Sono sempre stata piuttosto solitaria. Ogni tanto ne soffrivo, ma la maggior parte delle volte mi dava un piacere enorme raggomitolarmi in un angolo di casa o del giardino a leggere. Talvolta penso di avere qualche tara psicologica. E forse è così.

Adesso scrivo quasi ogni giorno per lavoro. Essere pagata per scrivere mi sembra così assurdo che ogni tanto ci penso e rido tra me e me, incredula. Non scrivo niente di importante, non lo scrivo particolarmente bene e non vengo neanche pagata molto per farlo, ma comunque mi sembra incredibile. A volte, se mi soffermo a rifletterci, immagino che un giorno, prima o poi, qualcuno, come una sveglia, verrà da me e mi dirà “Ciccia, adesso devi cominciare a lavorare davvero”. Nel frattempo mi giro dall’altro lato, nel dormiveglia, e continuo a sognare.

Di morte e memoria

Le persone muoiono. Tutte, senza esclusioni. Ogni tanto cerco di ricordarmelo. Non ho ancora ben capito se mi sia utile o meno, ma so per certo che non voglio rischiare di dimenticarmene. Già una volta ho compiuto una tale leggerezza e quello che ne è seguito è stato così doloroso che non credo di averlo ancora superato. O meglio, è stato così doloroso che ho scelto di non volerlo affatto superare. Non so se sia un meccanismo di autoconservazione o di autodistruzione, ma mi sono convinta in qualche modo del fatto che ricordare a me stessa che tutti devono morire, soprattutto le persone a cui voglio più bene e senza le quali fatico a immaginare la mia vita, sia fondamentale.

La sorpresa è che non è semplice come sembra.
C’è qualcosa nella mia testa che mi spinge all’incoscienza. Quando è morta mia cugina avevo sedici anni. Dopo la sua morte i miei zii hanno fatto stampare le sue foto più recenti per regalarle a chi le aveva voluto bene, affinché ne serbasse un ricordo. Quando le ho viste, sebbene fossero delle bellissime foto, mi sono ripromessa che non sarebbe stato quello il ricordo che avrei conservato di lei. Per la prima volta mi sono resa conto di quanto sia limitata l’immagine bidimensionale. Quella non era affatto mia cugina: la fissità dell’immagine annullava tutto ciò che la rendeva lei, le espressioni, la voce, la gestualità, il suo modo di interagire con me. Nella foto non c’era nulla di mia cugina come la ricordavo. Ero a tal punto shoccata dalla differenza, che mi sforzai immediatamente di rivivere dentro di me tutti i dettagli che ricordavo delle sue espressioni, ma mi resi conto che non era affatto semplice. Così, su due piedi, non ero in grado di rievocare i dettagli del suo volto. Ricordavo benissimo la sua voce, ma non il suo viso, e questo è strano perché siamo cresciute vicine e nell’ultimo periodo avevamo passato del tempo insieme più spesso del solito. Nei giorni dopo la sua morte ho trascorso giornate intere a sforzarmi di ricordare tutti i momenti passati insieme che ero in grado di ricostruire nella mia mente e ho scoperto che la mia memoria funziona in un modo totalmente diverso rispetto a come avevo sempre dato per scontato.

Non c’era in nessun luogo della mia mente un ritratto di lei che avesse i contorni nitidi della fotografia, eppure sapevo perfettamente che se la fotografia non corrispondeva al ricordo che serbavo, era le fotografia ad essere fallace. Non sono mai riuscita a scattare un fermo immagine dei miei ricordi che la rappresentasse. Eppure sentivo chiaramente che l’immagine in movimento e nebulosa che ne avevo e dalla quale ogni tanto emergeva un’espressione o una risata era più autentica di quella impressa sulla carta.

Quando ho capito a qual punto fosse labile la mia memoria ho istintivamente cercato di combattere quella fragilità dedicando il maggior numero di pensieri possibile a ricordarla, ripromettendomi solennemente che non avrei mai lasciato che le immagini stampate che mi risultavano totalmente estranee diventassero un giorno il ricordo di mia cugina.

Sono passati undici anni da allora. Ora, quando penso a lei, la prima immagine che la mia mente mi propone automaticamente è quella che si trova sulla sua tomba. Non sono stata capace di mantenere la mia promessa, nonostante ci abbia provato con determinazione, nonostante vi abbia dedicato ore e ore della mia vita, soprattutto nei due anni successivi alla sua morte. Ci sono stati pomeriggi interi in cui ho chiuso i libri, i miei adorati libri, e invece di studiare mi sono esercitata a ricordarla. Che senso aveva poi studiare? Non è forse solo memorizzare e interiorizzare conoscenze in modo tale da averle successivamente a disposizione dentro di sé? E se non ero in grado di ricostruire il volto di mia cugina a pochi giorni dalla sua morte, se talmente poco potevo confidare nella mia memoria, a che scopo continuare a fare affidamento su di lei?

Ho sempre dedicato eccessiva importanza ai miei risultati scolastici. Sono sempre stata fiera delle mie capacità intellettuali, in modo oltretutto schifosamente arrogante, pensando che ottenere appena la sufficienza fosse un risultato di cui vergognasi. Ho sempre fatto il possibile per non essere mediocre ma sopra la media in tal senso, facendone quasi una malattia. Invece dopo la morte di mia cugina prendere un’insufficienza non aveva alcuna importanza, mi era completamente indifferente persino un 2, che era in grado abbassare a tal punto una media da compromettere tutto il rendimento scolastico del quadrimestre. Sentivo di fare qualcosa di più importante, rispetto al quale studiare la prima ecloga di Virgilio o i grafici sugli assi cartesiani era una sciocchezza. Esistono milioni di libri in migliaia di lingue diverse che permettono a miliardi di persone di scoprire ogni giorno come duemila anni fa un grandissimo poeta latino ha formulato magistralmente dei versi destinati all’immortalità, ma in poche decine di anni sarebbe scomparsa ogni traccia del passaggio in questo mondo di una persona a cui avevo voluto profondamente bene sin dall’infanzia. Cercare di ricordarla mi sembrava un compito sacrosanto, al quale non potevo sottrarmi. E non l’ho fatto, non mi sono tirata indietro, nonostante fosse doloroso e snervante perché mi mostrava quanto poco fosse rimasto di lei in me. Eppure non è stato sufficiente.

Undici anni fa ho perso una persona a cui volevo bene in un modo improvviso e traumatico e ho capito che la morte non è un’entità separata dalla nostra esistenza, ma è il filo stesso con cui è tessuta. La morte è la nostra condizione esistenziale autentica. L’evoluzione biologica ci ha però concesso uno strumento in grado di permetterci una forma di immortalità: la memoria. Gli antichi greci ci erano già arrivati con un leggero anticipo su di me, quindi la mia scoperta non ha sconvolto il mondo, ma ha cambiato me in modo radicale. Credo sia stato allora che ho smesso di credere nell’immortalità dell’anima e ho scelto di dedicare la ia vita allo studio. Così per un po’ di anni sono stata un’adepta solitaria della setta della memoria: chiusa in casa, china sui libri a sforzarmi di imparare lingue che non solo non sono più parlate, ma quasi nessuno al mondo conosce più e che la quasi totalità della popolazione mondiale ritiene che non debbano avere spazio nel sistema d’istruzione, non vedevo nessuna causa più nobile a cui consacrare la mia vita.

Senza filo

Ariadne era una fanciulla antica. Il suo distacco dal mondo avvenne presto, a causa della sua strana forma di follia. I medici avevano diagnosticato un’anomalia neurologica che faceva di lei quasi un fossile vivente. Infatti la sua mente aveva conservato una modalità di pensiero arcaica, confusamente testimoniata da forme di cultura ormai per lo più dimenticate. Secoli fa l’umanità ha realizzato un balzo evolutivo che ha separato vertiginosamente le generazioni che vi si sono trovate a cavallo. Un cambiamento così repentino non si era mai verificato nel corso della sua storia, e per questo motivo secondo gli scienziati può ancora accadere che inaspettatamente nascano individui che non presentano le nuove caratteristiche e che sono condannati a vivere una vita fuori dal tempo, solitaria ed effimera.

Viveva in una villa dall’aspetto abbandonato, immersa nel verde incolto delle colline fuori città e trascorreva le giornate nell’insensatezza, immersa nella lettura di desueti supporti scrittorii. Quasi nessuno si ricordava più di lei: i suoi stessi genitori, fino al giorno della loro morte, non avevano potuto fare altro che crescerla nella loro casa come un’impenetrabile estranea, incomprensibile non perché incapace di parlare, ma poiché le sue modalità di articolazione del pensiero in parola non erano decodificabili nemmeno dal sangue del suo sangue. Usava parole note combinate in fulminei vortici e contorti meandri che nessuno era in grado di seguire per più di qualche secondo. La capacità di attenzione di ogni suo possibile interlocutore sulla faccia della Terra era adattata a un sistema di conoscenza che non aveva più nulla a che vedere con il suo. Nessun uomo ha più la necessità di apprendere alcunché, perché nel momento stesso della nascita acquisisce una nuova facoltà intellettuale: l’onniscenza. Tecnologia e esseri umani hanno dato vita a questo miracolo evolutivo che li ha resi divinità in carne e ossa.

Tutto ha avuto inizio con l’invenzione di una rete di dati potenzialmente infinita e condivisibile istantaneamente dall’intera umanità. In poco tempo chiunque ha avuto la possibilità di accedere infinite volte e in ogni momento a qualsiasi informazione prodotta da ciascun essere umano in qualunque punto del globo. Inizialmente si trattava di una protesi alquanto scomoda e poco funzionale, ma in breve è giunta a tali livelli di raffinatezza da non essere più percepibile come qualcosa di esterno, e tutto è cambiato. Si tratta della più grande rivoluzione biologica e sociale della storia: il pensiero stesso ha acquisito una nuova sede, un organo più potente e perfettamente identico per ogni individuo, azzerando in questo modo qualsiasi arbitrario squilibrio nella distribuzione dell’intelligenza. L’onniscenza garantisce un’equità sociale senza precedenti.

I casi clinici come Ariadne sono rarissimi e per lo più non sono mai stati un problema. Vivono come esseri di fiaba dimenticati da un mondo che è andato oltre l’ignoranza.
Come ogni giorno passeggia nel suo giardino, occupandosi amorevolmente del fitto intrico d’edera e vite che vi proliferava ovunque formando cunicoli e meandri, i quali per i pochi che li hanno visti erano una chiara immagine della sua mente malata. Di notte, quando nessuno poteva vederla, si muoveva ondivaga fra quelle tortuosità con passi lenti che somigliavano a una danza preistorica. Prigioniero al centro del giardino, avviluppato da viticci e pampini, stava un vecchio albero d’alloro, di dimensioni impressionanti. I rami più alti svettavano ben visibili anche da lontano e portavano appesi dei frustuli di carta, un materiale obsoleto e deperibile che la giovane recuperava chissà dove. Ognuno di essi portava iscrizioni in caratteri differenti che erano causa di profonda inquietudine per chi li aveva potuti scorgere.

Un’altra peculiarità degli individui come Ariadne è la passione reazionaria per le lingue. Appare incomprensibile, ma sembra che provino piacere nell’addentrarsi nell’alienazione del disperante proliferare di lingue che ha ammorbato la nostra specie per millenni. Oggi sono viste con grande sospetto perché segno dell’imperfezione a cui l’uomo è stato condannato da un dio, apparentemente senza possibilità di riscatto. Eppure ormai Babele è solo uno spiacevole incubo primordiale: l’uomo stesso possiede caratteri divini e parla una sola lingua superiore, sulla cui integrità vegliano esperti moderatori in ogni angolo del globo e programmi di correzione automatica in ciascun dispositivo di produzione testuale.

Dopo aver finito di potare con cura le siepi di rampicanti, si diresse verso il grande portone di

quercia e lo richiuse dietro di sé. Posò le cesoie in un piccolo mobile dalle ante intarsiate di marmi variopinti e salì l’ampio scalone. Gli spazi fra le colonnine del corrimano che fiancheggiava le scale su entrambi i lati erano stati chiusi con assi di legno nella parte esterna in modo da creare lo spazio per inserirvi strette mensole stipate di libri. Tali primitivi e limitanti contenitori di conoscenza foderavano ogni superficie della dimora. Sembrava che Ariadne non avesse fatto altro nella sua giovane vita che recuperarne il maggior numero possibile da mercanti antiquari. Nonostante la magnificenza estetica di una simile collezione, essa e lo studio incessante della fanciulla risultavano insignificanti per colmare la distanza fra la sua mente limitata e il portentoso strumento di cui i suoi simili erano dotati. Era rimasta inesorabilmente isolata nel suo squilibrio, estranea a un’umanità dalla quale il progresso ha estirpato ogni altra forma di malattia mentale.

Percorse il corridoio in cima alle scale fino in fondo, si accovacciò in una delle poltrone sgualcite disposte nell’antro del bovindo e rimase lì seduta con le luci spente, osservando la città in lontananza, ben visibile attraverso le vetrate nel suo sfolgorio di luci intermittenti. Era abituata alla solitudine e non vi faceva ormai più caso. I pensieri le scorrevano fluidi e fulminei nella mente susseguendosi rigorosi ,come perle di un rosario mosse lungo un filo da mani esercitate, e con altrettanta destrezza potevano cambiare direzione più e più volte, arrivando persino a rigirarsi su se stessi, senza smarrirsi.

Le era stato chiaro sin dall’infanzia che tutti coloro che la circondavano non erano in grado di cogliere nemmeno un barlume di questi procedimenti intellettuali. Avevano smarrito tali processi, insieme al desiderio di conoscenza. Molti avevano interpretato il percorso compiuto dall’umanità come un’ascesa prodigiosa, poiché chiamavano la loro condizione attuale onniscienza, riconoscendovi un attributo considerato precedentemente divino. Tuttavia, anziché trarre giovamento dall’enorme massa di dati garantita a ogni individuo, si era diffusa la falsa convinzione che a questo corrispondesse il massimo grado di conoscenza e avevano rapidamente relegato la propria mente al meccanico e mortificante compito di intermediario fra il mondo esterno e l’enciclopedia universale di cui erano artificialmente e miracolosamente dotati. Convinti di sapere tutto, avevano smesso di porsi domande: il loro cervello non interrogava più se stesso, ma l’enciclopedia a cui era connesso, con lo stesso fiducioso e stolto abbandono con cui si interrogavano nei tempi antichi gli oracoli. La loro portentosa evoluzione consisteva in realtà in una parziale atrofia cerebrale, compensata grottescamente dall’affinatissima tecnologia creata dalle generazioni precedenti. Della generazione attuale nessuno sarebbe stato in grado di inventare da zero, con la propria capacità creativa le stesse tecnologie. Ariadne, come forse pochi altri sporadici esseri sapeva che il tempo dell’uomo sulla Terra era destinato ormai a una fine imminente. Rifletteva sull’ironia crudele che faceva di lei – considerata irrimediabilmente malata e destinata all’estinzione, e per giunta incomprensibile persino a chi avesse voluto provare a dare ascolto alla sua voce – l’unico vero oracolo attendibile. Questo le ricordò un antico racconto scritto in una lingua del Mediterraneo, in cui si narrava la storia di una prigioniera di guerra che vaticinò la fine dei suoi oppressori proprio mentre questa veniva messa in atto, ma a nulla servì, poiché era stata condannata a restare per sempre inascoltata da un dio che, amandola, non era da lei stato corrisposto. Disgraziatamente si sentiva più intimamente vicina a una donna forse mai esistita millenni addietro che allo sconosciuto che era entrato pochi giorni prima nel suo giardino, benché suo coetaneo.

Era stata una faccenda piuttosto curiosa, poiché normalmente l’umanità intera dimostrava un assoluto disinteresse nei suoi confronti, come del resto ormai per ogni cosa del mondo che non fosse essa stessa. Doveva essersi addentrato nel giardino incuriosito dai fogli ondeggianti fra i rami d’alloro. Si trattava di semplici citazioni, ognuna tratta da una diversa tradizione linguistica di cui era riuscita a padroneggiare abbastanza gli elementi per poterne leggere alcune opere significative e da queste scegliere un passo particolarmente amato da donare al vento come al vento soltanto era condannata a rivolgere ogni sua parola. Nessuno ormai compiva più atti così insensati, comprensibili solo per chi vi cogliesse un valore simbolico. La concezione stessa di simbolo stava scomparendo, insieme alla capacità di articolare frasi complesse.

Dunque il forestiero, andando alla ricerca dell’alloro, si era perso nelle vie disegnate dai viticci e fu

allora che Ariadne si accorse della sua presenza, poiché egli scoppiò in singhiozzi disperati quando comprese di non essere in grado di trovare l’uscita. Attirata da un pianto che incomprensibilmente giungeva dal folto del parco di piante infestanti, lo raggiunse. Era persino bello, nonostante si fosse rannicchiato a terra terrorizzato chissà da quale informazione fallace recuperata dalla sua mente in merito alla situazione in cui si trovava. Quando la vide, le venne incontro carponi e le cinse con le braccia le ginocchia, guardandola supplichevole. Intenerita dalla confusione del giovane, lo prese cautamente per mano per indurlo a rialzarsi e lo accompagnò lentamente fra le siepi. Strappando alcuni dei rami più teneri qua e là, mentre camminavano verso l’uscita, intrecciò per lui persino una ghirlanda decorata con bacche d’edera e pampini, pensando che in tale forma li avrebbe trovati meno spaventosi. Era stata gentile con lui, ma ugualmente non lo rivide più.

Il giorno seguente ricevette un’altra visita inattesa, ben più inquietante. Un signore distinto, con i capelli grigi aggiustati di fresco dal barbiere, suonò il campanello. Lo raggiunse al cancello e lo condusse attraverso il tortuoso giardino in silenzio, sorridendogli, fino all’uscio di casa. Con un gesto della mano lo invitò a entrare, lo fece accomodare in un salottino traboccante di libri come il resto della casa e gli servì un tè in un servizio di porcellana finissima sebbene sbrecciata e crepata in più punti, mentre l’uomo non riusciva a smettere di guardarsi attorno esterrefatto. Quando il vapore del tè si levò dalle tazze in riccioli voluminosi appannandogli gli occhiali, si ricompose e, sfregando con cura le lenti, iniziò a presentarsi parlando come se si stesse rivolgendo a uno straniero o a un analfabeta. Ariadne lo interruppe: “Probabilmente è stato male informato sul mio conto e per questo è convinto che io non possa comprenderla se non parlandomi a monosillabi, ma le assicuro che sono perfettamente in grado di capire ogni suo discorso”.

L’emissario sociale, così infatti si era qualificato, annuì energicamente con il fare di chi ha perfettamente colto il nocciolo della questione e proseguì, smentendosi simultaneamente: “Non servire che lei spiega me niente. No preoccupare. La società vuole trovare soluzione migliore per tutti. Domani, ore 11, potrà fare esami utili per sua salute in ospedale”.

Ariadne provò in modo più diretto: “Guardi che la capisco meglio se parla in modo normale.” “Certo, certo. Nessuno dice il contrario” rispose con tono condiscendente.
“Non ho bisogno di cure. Sono già stata visitata. Non c’è cura nel mio caso” aggiunse lei piuttosto seccamente.
“Non ci sono cure, giusto. Esistono però alternative” egli pronunciò le ultime parole con una gentilezza tale da farla rabbrividire.
“Forse non ci stiamo capendo: voi non potete fare nulla per me. L’unico vero problema è che ci è impossibile comunicare, poiché la vostra mente non vi permette di comprendere altro che ammassi di informazioni sintetiche e predigerite e, nell’arrogante convinzione di dominare tutto lo scibile, non provate alcun desiderio di conoscere ciò che vi è incomprensibile. Vi state accomiatando dalla vita come asceti che vivendo imparano a morire”.
Il funzionario interruppe il suo impeto con indulgenza affettata: “Comunicare…sì, la comunicazione è uno dei perni attorno a cui ruota la società contemporanea. Lei ha afferrato appieno: la questione è la sua incapacità di esprimersi, e questo, va da sé, fa di lei un problema.” Ariadne prese fiato con l’intento di protestare, ma prima che vi riuscisse il vecchio riprese: “Nello stesso discorso affianca incoscientemente concetti come comunicazione, ascesi e morte. Non solo lei è folle, ma vi è anche qualcosa di nefando e pericoloso nella sua mente, un’indecenza che è riflessa nel modo in cui conduce la sua esistenza insensata. Risiede immersa nei rifiuti in un luogo disumano e perverso. E non è tutto: si spinge persino a godere dello sgomento e dell’orrore che esso provoca negli altri”. Ariadne sussurrò stravolta: “Lei farnetica. Ciò che afferma non ha alcun senso”.
Il burocrate assunse un tono inquisitorio: “Nega di essersi compiaciuta di fronte al panico di un giovane sprovveduto?”.
“Naturalmente lo contesto. Gli ho sorriso per rincuorarlo, se è a questo che allude” la sua voce era fioca.
“E con lo stesso intento gli ha donato un oggetto maledetto?” la incalzò esultante.
“Ma di che cosa sta parlando? Non la capisco. La prego, se ne vada” un pallore lunare le era calato sulle guance.

“Il ragazzo si è tolto la vita. Il suo corpo dondolava appeso al ramo di un albero, il collo cinto da sarmenti di vite e tralci d’edera” i suoi occhi irradiavano trionfo.
Ariadne si sentì perduta. Barcollò sopraffatta dal dolore e maledì tra sé e sé la propria leggerezza. Poi incrociò nuovamente lo sguardo del suo interlocutore e notò l’incongruità della sua espressione. Capì che mai vi si sarebbero potute scorgere tracce di pena o compassione e lo cacciò con parole risolute: “Avete preferito il conoscere al comprendere e vi siete ormai ridotti a esseri aridi e insipidi. Quella che considerate onniscienza non è che sconfinata stoltezza e non sapete vedere l’ovvio: il destino della vostra stirpe è segnato. Porti il suo pensiero empio lontano dalla mia dimora e non osi fare ritorno” il suo sguardo dardeggiava sdegnoso. L’uomo, annichilito, trovò in quelle parole conferma della natura distruttiva della donna e fuggì. Nell’attraversare il giardino si perse come già era accaduto al giovane il giorno prima. I suoi lamenti l’avevano angosciata fino a sera, quando infine egli trovò per caso l’uscita.

Mentre riviveva per l’ennesima volta nel ricordo gli avvenimenti recenti, si addormentò, senza rendersene conto, e scivolò rapidamente in un sogno dolcissimo. Correva nel labirinto del suo giardino all’ora del tramonto. La luce filtrava rossa e liquida spezzando le ombre azzurre della sera. Correva folle di gioia, come una bambina divertita dal gioco e impaurita dalla sua serietà, le guance ardenti, il collo caldo, le mani fredde per l’umidità che calava fra la vegetazione. Nel sogno non solo il giardino, ma anche lei era bella, quasi una creatura sovrumana. I lembi del suo vestito si sollevavano dietro di lei, lasciando intuire il suo percorso al giovane, lo stesso che proprio lì si era smarrito, che la inseguiva ridendo e gridando il suo nome con finta disperazione.

Infine gli riuscì di afferrarla per un braccio e lei si voltò a guardarlo felice, ma subito si accorse che non era più lui. Due uomini la tenevano ciascuno per una mano, con delicata fermezza, come chi afferra un gatto che gli appartiene, e, rivolgendole sorrisi distanti come le stelle, la condussero ai piedi dell’albero. Insolitamente portavano posate sul capo una corona di foglie d’alloro l’uno e d’edera e vite l’altro. Il primo aveva uno sguardo limpido e atroce e un incarnato d’alabastro, mentre la pelle del secondo era resa bruna dal sole e gli occhi, languidi e allungati come quelli di una donna orientale, erano del colore delle viole. Ariadne li riconobbe, ma non osò pronunciarne i nomi. Erano il caos e l’ordine, l’equilibrio e la follia, erano l’essenza dell’umanità ormai perduta, il mistero impenetrabile della sapienza. Senza mai smettere di sorridere, ognuno dei due la trasse a sé e il corpo morbido e ancora caldo della fanciulla, tirato in direzioni opposte, si strappò a metà, lieve come un foglio di carta.

Non si svegliò mai più. Morì arsa viva nel sonno, insieme alla sua biblioteca: le pagine pulsavano vorticandole attorno nel ruggito delle fiamme che purificarono il mondo da tutto ciò che di umano vi rimaneva. Fuori dai cancelli della proprietà i rappresentanti della nuova umanità osservavano il rogo senza mai distoglierne lo sguardo. Reggevano fiaccole con cui avevano appiccato l’incendio e inutili lame, orpelli da folla invasata. Nessuno avrebbe più udito il suono ipnotico di una lingua straniera, perché sulla terra ormai non esisteva che una lingua imbalsamata, non sarebbe più stata composta una poesia, poiché nessuno era più in grado di infondere vita a una metafora, e nessuno più avrebbe danzato in circolo la danza del labirinto, poiché l’umanità si era persa in un labirinto nuovo, senza sangue e senza mito, dove non esiste discrimine, ma solo accumulo.

Aspera et foeda

Sono figlia di strani immigrati. Nessuno mi ha insegnato ad amare la mia terra. Nessuno mi ha mai neanche spiegato che ho una terra che mi sia materna.

Mia madre ha lasciato la Germania per sposarsi. Una tedesca che si trasferisce in Italia per amore fa immaginare le avventure romantiche di un’algida teutonica alla scoperta della pittoresca e calorosamente marezzata italianità. Non è proprio questo il caso. La sua regione di provenienza è la vivace e, essa sì, pittoresca Baviera, con le sue rubizze velleità indipendentiste, l’amore nostalgico per l’ultimo re che l’ha governata – un romantico ed eccentrico mecenate, affogato in circostanze a dir poco misteriose – e le colline morbide coltivate a luppolo intervallate da fiabesche foreste di conifere. Di converso la regione in cui si è trasferita è la piatta Lombardia, famigerata per l’arido pragmatismo dei suoi abitanti. E, per colmo di sfortuna, la città che l’ha accolta al momento del suo espatrio è uno di quei comuni dell’hinterland milanese da cui gli abitanti si allontanano per svolgere qualsiasi funzione vitale non sia possibile espletare in stato di incoscienza.

Mio padre, d’altra parte, non è uno degli autentici brianzoli, effettivamente pragmatici, ma anche affascinanti per via dei loro dignitosi silenzi e giustificatamente fieri delle proprie origini cosmopolite per tradizione antica. Raggiunse la Lombardia a sei anni, strappato dalla campagna piemontese, terra in cui a sua volta era nato figlio di migranti: i contadini veneti che hanno ripopolato le proprietà terriere abbandonate per una vita urbana nuova di zecca a Torino.

In tutto questo andirivieni è forse superfluo chiarire che i miei genitori non hanno mai amato l’angolo di provincia milanese in cui mi hanno cresciuta. Non li si può biasimare d’altronde, poiché bisogna ammettere che nemmeno i nativi dimostrano particolare rispetto o cura, né tantomeno amore per Meda. E questo accade anche in molti dei comuni circostanti, dove la crescita urbanistica è stata bulimica e dissennata. Quando da bambina andavo a trovare le mie zie bavaresi ero violentemente colpita dal fatto che appariva esserci un non so che di unitario e gradevole nel paesaggio umano di quelle zone, come se vi presiedesse una volontà superiore volta al bene comune. All’epoca tutto questo mi appariva così straordinariamente esotico da sembrarmi soprannaturale. Solo in età adulta ho compreso che l’unitaria volontà superiore che ha plasmato tali meraviglie è prosaicamente burocratica e non ha niente a che vedere con divinità o creature boschive germaniche.

Da piccola in ogni modo i tetti a spiovente e le facciate intarsiate di travi dai colori contrastanti con il tufo giallo e rossastro, per non parlare delle ondeggianti colline lussureggianti, mi avevano completamente rapita. Il confronto con il cemento armato crepato e muffito, che si estende senza soluzione di continuità ovunque lo sguardo si volga nella mia città natale, è effettivamente impietoso. Per di più ero confusa da alcuni stereotipi su cui sin dalla più tenera infanzia mi sono arrovellata. Vivevo nella più pudica e composta regione della penisola, e ogni volta che nominavo le mie parziali origini tedesche sentivo qualcuno nominare per contrappunto la proverbiale calorosità italiana. Confermavo la convinzione comune più che altro per educazione, ma conservavo non poche perplessità. Questo perché la Baviera, nonostante sia la più ricca regione della Germania, proprio come lo è la Lombardia in Italia, è al contempo anche una delle più calde, ridenti e aperte, proprio come non lo è la Lombardia in Italia. Ho compreso la distanza fra la calorosa ospitalità italiana e la formalmente impeccabile accoglienza tedesca solo quando, molti anni dopo, ho iniziato a frequentare il Salento. Ma questa è un’altra storia, in cui inaspettatamente sono io la donna piovuta per amore dal nord in una terra arsa, che come il suo grano è resa dall’arsura sapida e pregiata nelle vestigia e negli animi. Per ora mi limiterò a tentare di fare un po’ d’ordine nelle mie terre d’origine.

Da ciò che ho raccontato finora si potrebbe evincere che il disamore dei miei genitori per la terra in cui vivevano li abbia portati a insegnarmi la nostalgia per le loro terre di provenienza, ma non è nemmeno questo il mio caso. Si può dire che mio padre abbia avuto un’unica indelimitabile patria: la natura. Sembra retorica, ma forse mi crederete se vi confesso che, in questi tempi di crisi economica, mentre tutti agognano un qualsiasi tipo di contratto lavorativo, si è licenziato per fare il pastore senza fini di lucro. Era poco più di un infante nell’unica fase della sua vita in cui ha amato profondamente il luogo in cui viveva, perciò quello che mi può raccontare non sono la storia e le tradizioni del Piemonte rurale degli anni Cinquanta, ma i giochi in cascina, con gli animali. Questa sua patria primordiale è tuttavia parte del suo paesaggio interiore più caro e riposto e forse per questo non l’ha mai davvero potuta condividere con altri. Del Veneto non mi ha mai parlato. Se ne conosco gli accenti linguistici e i panorami antichi è solo grazie ai resoconti sulla loro infanzia di cui i nonni sono prodighi.

Mia madre invece appartiene a quella generazione di tedeschi che hanno ricevuto un’istruzione non abbastanza distante dalla fine della Seconda Guerra Mondiale da permettere loro di farsi un’idea chiara della propria patria. Per prima cosa durante tutta la sua vita in Germania le Germanie erano due. L’altra Germania per il programma scolastico era a tutti gli effetti un paese straniero, pertanto mia madre tuttora fa un’incredibile confusione quando si parla della sua geografia. Bisogna poi aggiungere il fatto che la storia insegnatale non osava ancora affrontare gli anni più recenti e probabilmente anche quelli meno recenti erano spiegati in modo blando e confuso da maestri che nel migliore dei casi si vergognavano della storia del proprio paese.

Insomma, di fronte alla mia ammirazione per la bellezza paesaggistica della sua regione natia e alle mie incalzanti domande sulla nostalgia che doveva senz’altro provare per essa, mia madre si è sempre comportata con vaghezza e con una quasi ostentata indifferenza. La maggior parte delle volte le mie interviste infantili hanno suscitato solo affermazioni enigmatiche come: “Non mi manca la Germania, preferisco il clima italiano”.

A questo punto sembrerebbe scontato concludere che la relazione con i miei territori d’appartenenza è una storia controversa in cui l’amore per la propria terra è un mistero incompreso. Nella confusione caleidoscopica della mia infanzia è stato davvero così: nessuno mi ha spiegato nulla delle mie origini non chiare, e incredibilmente ho preso coscienza solo dopo anni che il dialetto parlato nel mio quartiere non era brianzolo, bensì veneto, perché quasi tutti i veneti cha erano giunti a Meda, insieme ad alcuni calabresi e siciliani, erano confluiti in un nuovo quartiere, non lontano, ma allo stesso tempo confinato in un altrove metafisico, rispetto al centro storico della mia città natale. Solo quando a diciotto anni sono stata espiantata bruscamente nella realtà di un paesino sperduto nelle valli bergamasche, ho cominciato ad intuire la natura composita di quella da cui provenivo, che quando ero bambina mi era sembrata monolitica e non bisognevole di spiegazioni.

Quella dell’amore per la mia terra d’origine è una storia di faticosa conquista e di testardo lavorio filologico. Il lavorio filologico riguarda ovviamente le mie terre lontane, la Baviera e il Veneto, ed è stato l’innamoramento più semplice, nonostante sia stata necessaria tutta la curiosa insistenza di cui sono capace per ricostruirne un ritratto personale. Per qualche motivo sia mia madre, sia i miei nonni hanno mantenuto sempre una certa reticenza all’elogio delle loro origini, forse perché, l’una per atrocità e gli altri per miseria, in entrambi i casi hanno sentito di doversene vergognare.

La faticosa conquista è stata invece quella operata ai miei danni da una terra difficile da amare, ma che mi è stata madre, per quanto io abbia ripetuto con ossessiva insistenza, più a me stessa che agli altri, di non esserle figlia. Finché ho vissuto chiusa nell’hinterland non ho mai capito la follia di vivere nel cemento incolto e sovraffollato di nevrosi che circonda Milano. L’ho percepita a lungo come una città disumana e muta, dalla cui orbita sarei fuggita non appena possibile.

Quando sono tornata a Meda per frequentare l’università a Milano, ho cominciato a vivere come vive la maggior parte della provincia, ovvero da pendolare: ogni giorno un’andata e un ritorno. Il ritorno per chi vive intorno a Milano però è insolito perché non accade la sera, quando apri la porta di un’abitazione semi-abbandonata con le persiane sempre serrate, bensì la mattina prestissimo, quando attraversi le strade del centro ancora per poco silenziose, mentre gli abitanti si affrettano compiti al daffare quotidiano e i turisti ancora dormono o sono lontani. Allora, avvolta da un silenzio surreale e consapevole di recarmi a svolgere un’attività che ho amato più di ogni altra e alla quale bramo di dedicare la mia vita tutta, provo ogni volta l’intima gioia di chi ritrova casa dopo averne sentito dolorosamente la nostalgia. Milano è una casa fragile, fatta di quello che si vuole essere, di sogni inseguiti e non sempre raggiunti, è una casa labirintica, in cui è facile perdersi, ma quando ciò non accade e ogni giorno vi si torna per essere la persona che si è scelto di essere, allora si vive una vita da privilegiato, che non tutti i luoghi possono elargire: eden dei pochi che vivono per il proprio mestiere, inferno dei molti che lavorano per sopravvivere.

L’Antigone in Ade

Persefone: Benvenuta nel regno dei morti, mia cara.

Antigone: Salve, dea.

Persefone: Ecco finalmente la famosa donna che ha preferito essere condannata a morte, piuttosto che accettare il divieto di seppellire il cadavere di un fratello. Non vedevo l’ora di conoscerti.

Antigone: È tardi, mia signora, per potermi conoscere. Ormai sono morta. Non sono più che un ricordo.

Persefone: Che cosa vuoi dire? Non sei stata tu a scegliere la morte? Perché ora la svilisci? Non sono forse tue le celebri parole “Ben più a lungo dovrò essere cara ai morti che ai vivi”?

Antigone: No, non sono parole mie. Io ho amato la vita e i vivi, è per loro che sono morta. Tu avrai sentito raccontare la mia storia da uomini.

Persefone: Eppure sei qui per amore di un fratello che ormai era morto, hai ritenuto il suo cadavere a te più caro della tua stessa vita.

Antigone: Che non abbia capito Creonte non mi ha sorpresa, ma che proprio tu, Persefone, non comprenda, mi meraviglia.

Persefone: È quindi vero ciò che si dice? Hai preferito morire piuttosto che continuare a vivere infrangendo la legge divina che impone di avere cura della salma di un congiunto celebrando i riti prescritti?

Antigone: Con sacro rispetto parlando, sarai pure dea e sovrana degli inferi, ma mi sembri priva non solo di onniscienza, ma persino di acume. Ti ho appena detto che amo sopra ogni cosa la vita, non gli dei; senza che questo si traduca in alcun tipo di disprezzo nei vostri confronti, intendiamoci, non coltivo questo tipo di pregiudizi. Voi divinità olimpie fra tutte siete poi le mie predilette, incuranti come siete di mostrare attraverso azioni spesso avventate e sciagurate, se non persino goffe e ridicole, il vostro lato più vitale.

Persefone: Tu sì che sei abile nell’aspergere di miele il boccone amaro del farmaco! Non è necessario comunque, sono abituata alle angherie di voi anime perdute, non preoccuparti, non la prendo più sul personale ormai. Da vivi mi rintronate le orecchie di salamelecchi imploranti e poi, appena abbiamo occasione di incontrarci dal vivo – pardon – di persona, vi comportate come se fosse colpa mia se avete perso la vita per aver solcato baldanzosamente il mare in tempesta o tradito una moglie collerica. Da morti diventate incredibilmente rancorosi, sebbene nichilisti. Ma tornando a noi: ancora non capisco in che modo la tua morte dimostri un’amore per la vita. Spiegati meglio e non fare la Pizia, suvvia.

Antigone: Non volevo atteggiarmi a profetessa invasata, pensavo solo che il senso delle mie affermazioni fosse ovvio per chi come te è stata caricata di peso dal suo futuro marito su un carro in corsa e trattenuta in una dimora tetra come l’oltretomba con lo stratagemma di offrirti un melograno maledetto. Non solo Ade ha strappato il tuo corpo, come se fosse parte del paesaggio, dal giardino in cui giocavi con le Ninfe, ma ha fatto sì che vi si insinuasse con l’inganno il veleno che l’ha trasformato irreversibilmente in proprietà del regno dei morti. Ed eccoti qua: una fulgida dea che non può disporre liberamente del suo corpo e della sua vita, se poi si possa dire di voi divinità che ne siete dotati.
Mio fratello era morto ormai, è vero, ma il corpo era l’ultima sacra traccia del passaggio della sua esistenza sulla terra, destinato a rimescolarsi alla vita disperdendovisi. Né Creonte né le leggi dello stato dovevano avere il diritto di disporre del suo corpo come di un oggetto, per di più sgradito. E gli dei non c’entrano con tutto ciò. Sono le vostre leggi a riconoscere la sacralità della vita e non la sacralità della vita a essere sancita dalle vostre leggi, sarai d’accordo con me, tu che il giorno in cui hai perduto il piacere di camminare tra i fiori primaverili hai pianto tanto da convincere tua madre, dea delle messi, a imporre un inverno permanente all’umanità finché non ti venne concesso di tornare sulla terra per metà dell’anno.
Sono morta perché la follia di un tale illegittimo potere diventasse evidente a tutta la cittadinanza e vi fosse di conseguenza una maggiore probabilità che ciò cambi. Non sono morta con gioia, ma con rammarico. Non so quale assurda follia alberghi negli animi dei poeti che cantano esaltati la bella morte. Sono uomini, credo che sia questo il problema. Pensano che il corpo sia utile solo quando, muscoloso e scintillante d’olio, si slancia alla conquista di imperitura fama in battaglie e gare atletiche, per il resto coltivano la convinzione che sia irrilevante nell’esprimere l’essenza di un essere vivente, compito invece del pensiero. Scommetto che qualcuno di loro arriverà un giorno, se già non è accaduto, persino a sostenere che l’anima, eccellente e infinita, vive nel corpo come in una prigione.
Noi due, che abbiamo il sommo privilegio di essere relegate per sempre in questo luogo (letteralmente) dell’anima, possiamo invece affermare con amara certezza che ben più tremenda prigione è l’esilio dell’anima dal corpo. Alle nostre menti resta solo lo struggente ricordo di tutto ciò che esso ci ha permesso di conoscere ed essere. Mai più potremo distinguere un raggio di luce che ferisce l’ombra, mai più sentiremo il profumo dei fiori di tiglio passeggiando al tramonto o l’odore rasserenante della pelle dell’amato, e non ci sarà più concesso di toccare con le piante dei piedi l’erba rorida all’alba o accarezzare il pelo tiepido del collo d’un puledro. E se non avessimo avuto occhi, naso, mani e piedi, se non avessimo mai avuto sangue, oggi non conosceremmo nulla di tutto ciò che ho elencato, non avremmo nemmeno memoria.
Eccola la sacralità del corpo: ci scorre dentro, palpita, batte e ci determina, non abbiamo bisogno che siano gli dei a sancirla e nessuna legge umana dovrebbe dimenticarla. Alle donne è dato comprendere tutto ciò con maggiore naturalezza e questo fa di noi esseri benedetti. Mia sorella Ismene mi disse, per dissuadermi dal trasgredire al decreto di Creonte, che dovevamo ricordarci di essere solo due donne, incapaci di tener testa agli uomini che ora detengono il potere. Si potrebbe pensare che con il mio agire io abbia voluto far valere il pensiero di una donna, oltrepassando un limite imposto a me in quanto donna, ma non è così. Sono morta perché ho scelto di dare espressione a quanto di più umano risiede dentro di me e ho infranto una legge che calpesta l’umanità. Tutto ciò è stato chiaro e inevitabile per me, questo sì, perché sono donna e il mio corpo mi ha insegnato chi sono, Ismene invece ha lasciato che le venisse spiegato da un uomo e perciò non ha compreso la mia scelta.

Persefone: Ora basta parlare, cara, è il caso di dire che avremo l’eternità per farlo. Solo una volta all’anno invece, in occasione delle feste Antesforie, che gli uomini celebrano in mio onore al dischiudersi dei primi fiori, gli dei concedono alle anime dei morti di risalire verso la superficie per allietarsi della vita e della luce.
Sei stupita. L’hai sempre ritenuta una favola per ingenui, giusto? Vieni, mia diletta miscredente, sorreggimi durante la salita: l’umidità dell’averno mi è entrata nelle ossa.

I. Ianus

Tempo fa incontrai una donna la cui storia mi sembrò ineffabile. Viaggiavamo insieme in un pullman, diretto non ricordo bene dove, appartenente a una di quelle nuove compagnie che offrono trasporti su strada a prezzi stracciati a chi non teme un passaggio lungo e scomodo. La sua era una vita straordinaria come tante. A chi la conosce superficialmente, l’aggettivo più appropriato per descriverla sembrerebbe semplice. Tuttavia il suo sorriso è tutt’altro che semplice: scende abissalmente in profondità. Non saprei come descriverlo altrimenti (eccomi alle prese con l’ineffabilità di cui parlavo).

La conoscevo da anni, avevamo vissuto l’una in prossimità dell’altra, ma fu solo allora, nel suo primo viaggio in solitaria dopo un’intensa vita di madre e moglie, che la incontrai davvero per la prima volta. Tempo addietro un’amica pizia mi disse che avrei trovato le parole per raccontare la sua storia e io rimasi perplessa, come accade al cospetto di ogni vaticinio. Quando la incontrai anni dopo, con lo sguardo rivolto al paesaggio cangiante al di là del finestrino e i pensieri intenti all’analisi dell’ancor più cangiante suo animo, capii che un racconto aspettava e ricordai le parole profetiche.

Come ogni storia anche questa possiede un momento fatale a causa del quale invisibilmente prende una direzione ineluttabile: fu alla fine degli anni Settanta, nella ricca regione tedesca della Baviera, in una cittadina modesta, ma tangenziale alla gravosa storia recente poiché vicina a Norimberga, dove ebbe luogo una delle fasi confuse del post Seconda Guerra Mondiale, sotto la cappa di orrore che infestò le coscienze delle generazioni seguenti. È allo stesso tempo scioccante e consolante constatare come nemmeno le pagine più fosche della storia umana abbiano potuto impedire alla natura di fare il suo corso: la vita, inaspettatamente ma immancabilmente, prosegue. Di fronte a una tale barbarie l’umanità si sarebbe aspettata che il pianeta stesso si fermasse attonito in lutto e che il canto siderale mutasse per sempre in un epicedio, come un bambino al cospetto della morte della prima persona cara si aspetta che la scuola chiuda e i giornali nazionali ne riferiscano, come fanno per ogni notizia rilevante. Eppure, come accade per il fanciullo al suo primo lutto, anche l’aspettativa dell’umanità è stata disattesa dalla vita, che, a distanza di poco più di trent’anni, aveva ripreso il sopravvento.

Angelika era la più piccola di cinque fratelli e della guerra aveva conoscenza diretta solo attraverso gli strascichi lasciati sui membri più grandi della sua famiglia. La sorella maggiore, da cui la separavano vent’anni, sognava ancora di correre nel bosco stringendo la mano della madre e poi il sapore della terra in bocca mentre la donna le faceva scudo con il proprio corpo al cadere delle bombe. La gemella della madre, mentre fuggiva da quella che sarebbe diventata la Repubblica Democratica Tedesca, aveva visto schizzare sul muro accanto a sé le cervella di un uomo colpito alla testa da una pallottola e da allora non era più stata la stessa. Angelika la conosceva come una zia buffa e triste che si pettinava e agghindava prima di sedersi di fronte alla televisione, convinta di poter essere vista dai personaggi intrappolati nello schermo, e che svuotava le bottiglie del latte nel lavandino, nella speranza di riuscire a sfamare la voce disincarnata che dall’altro capo delle tubature le chiedeva disperatamente aiuto.

Angelika, allora appena ventenne, si innamorò di uno studente di medicina affascinante e sicuro di sé, dotato di una vitalità trascinante. In poco tempo abbandonò il suo appartamento da single e iniziarono a convivere, cosa che all’epoca provocò non poco scompiglio nella sua famiglia di immacolata fede protestante (certamente più del matrimonio del fratello, prima unione di un membro della famiglia con una donna cattolica e persino più vecchia di lui di qualche anno).
La loro storia era finita da qualche mese quando si compì l’istante fatale a cui ho già fatto cenno. Tradita, aveva perdonato l’amato disperatamente pentito solo per scoprire più tardi che la relazione con l’altra non si era mai interrotta definitivamente. Abbandonò l’appartamento di lui su due piedi, senza portare con sé nulla di ciò che avevano condiviso. Superò lo strazio delle prime settimane con fatica, ma determinata a tornare a se stessa e, trascorso qualche mese, il dolore, fattosi sordo, era ormai nella sua mente un rumore di fondo inascoltato in mezzo al frastuono degli interrogativi inebrianti e urgenti sul significato della propria vita. Fu sopra a questo rombo che si innalzò la voce di uno sconosciuto, scalfendo una traccia indelebile nella sua esistenza: «Non temere, un giorno avrai un uomo che sarà solamente tuo». Era una frase da chiromante, che appariva per questo ancor più strampalata pronunciata da un uomo di mezza età che scendeva al suo fianco dal tram, vestito in modo comune, né elegante né trasandato, con un sorriso piano, lontano. Un momento dopo era svanito. Non lo aveva di certo visto scomparire a mezz’aria, ma di fatto non riusciva a individuarlo nella folla che si avviava brulicante alle sue attività quotidiane.

Non un uomo, ma la propria strada era l’oggetto dei suoi tormenti interiori all’epoca. Turbata tuttavia da quello strano incontro e spossata dalle riflessioni spiraliformi che bivaccavano nel suo animo, stabilì che una decisione andava presa il giorno stesso. Scacciò i pensieri con determinazione e promise a se stessa, testimone l’universo tutto, che avrebbe dedicato la sua vita a ciò per cui era stata creata, senza esitazione, purché tale significato le si palesasse. Pianse di sollievo e gioia nell’affidare se stessa apparentemente al nulla, ma con la convinzione profonda di aver mosso il primo essenziale passo verso l’immenso. La solennità del momento era perfetta: nel tramonto occhieggiante fra gli alberi del parco cittadino cominciavano a rilucere le stelle serali. Tutta una vita racchiusa in un solo istante. Il passato e il futuro si condensarono allora in un nocciolo di grazia che si indurì a protezione di un segreto insondabile.

Il giorno dopo lasciò la sua vita precedente e a lungo visse alla giornata, trovando di giorno in giorno il suo spazio nel mondo, alla costante ricerca di se stessa e della comprensione dell’universale. Questo viaggio di scoperta durò dieci anni. Poi, come Odisseo, trovò un approdo. Sposò mio padre, incontrato sulle vie dei pellegrini, e nacqui io. La vita cambiò e per ventisei anni è stata una madre, senza mai smettere di indagare l’insondabile, nonostante svolgesse a tempo pieno e indeterminato, con devozione e dolcezza infinite, il più complesso e duro lavoro della storia dell’umanità. In questo tempo ha amato un uomo – forse, chi lo sa, riconoscendovi quello citato da uno sconosciuto su un tram tanti anni prima – e ha cresciuto tre donne in una lingua straniera. Solo oggi mi interrogo sulla solitudine di una madre che mai ha potuto conversare con le proprie figlie nel linguaggio avito.

Poi un giorno, mentre noi figlie compivamo o preparavamo lo stesso suo balzo irragionevole e inevitabile nel precipizio della vita, lei e lui si sono guardati negli occhi smarriti, senza più riconoscersi, col timore di non appartenersi più ed ecco che l’eco delle onde dell’oceano attraversato in giovinezza torna a chiamare. La solitudine pretende scelte fatidiche. Restare fermi è inconcepibile mentre l’abisso invoca il nostro nome con verso di sirena.
Ancora oggi, a una vita di distanza, in quel nocciolo di grazia sopravvive mia madre, la donna forte oltre le debolezze che ho conosciuto solo nel momento del suo addio, immaginandola nel pullman che l’ha portata via da me, dalla sua famiglia. Non per viltà, né per paura ci ha lasciati, ma per tenere fede alla promessa di rimanere viva in vita.
La chiamano grandezza o libertà, sogno o fede, è la via dell’eroe e del saggio. Le prime parole dell’umanità di cui conserviamo memoria ne cantano. I poemi epici e le tragedie d’Occidente, le preghiere e i miti d’Oriente, gli ultimi saggi della parola nei villaggi remoti di continenti ancora incompresi non hanno mai smesso di indagarne le vastità. Io ne vedo una traccia in lei, di questo mistero immenso che ci appartiene intimamente e ci sfugge in eterno. La vedo solitaria, nella mia mente, da lontano e non la comprendo, ma le sono legata da un sentimento profondo e desidero seguire i suoi passi, su un’altra strada.

Questo è ciò che io racconto a me stessa. È la mia versione della storia, una mescola di ricordi diretti, di desideri e sforzi di comprensione e di racconti materni risalenti a varie epoche della mia vita, talvolta rievocati nella mia memoria tanto numerose volte da risultare figli della mia fantasia più che delle parole che hanno generato tali ricordi.

Nei giorni in cui mi sento forte e solida questo è ciò che vedo se penso a lei.

 

II. Ianua

Capita talvolta che la storia mi appaia assai diversa.

In momenti del genere un umore incolore mi attanaglia e le mie memorie mutano drasticamente, nonostante io tenti di inchiodarle alle teche della mia mente come un collezionista fa con le farfalle.

I ricordi si trasformano mentre mi sforzo di trattenerli, come tanti Proteo che non si rassegnano al morso dei nodi. E, come Proteo, il vecchio vaticinatore marino, dopo un vorticare pazzo di forme, assumono nuovamente un aspetto stabile e, pur raccontando una storia diversa, parlano parole vere, almeno per una parte di me che non sa comprendere e perdonare.

Una donna spigolosa e non più giovane partorì a metà degli anni Cinquanta la sua quintogenita. È una donna enigmatica colei con cui abbiamo a che fare in questa storia, una sfinge indecifrabile: devota e fedele a Cristo, ma apparentemente egoista in modo inconciliabile con la sua fede, cosa di cui lei non sembra consapevole. Lo pensa anche la sua primogenita, all’epoca ventenne e in procinto di compiere una scelta che la separerà e la legherà allo stesso tempo definitivamente alla madre.

Mentre la sorella minore impara a camminare e parlare, lei lascia la casa natale per un convento, seguendo i pii insegnamenti materni, ma operando una cesura netta che segnali la sua rinuncia definitiva all’ego. Se la madre l’abbia amata durante la sua infanzia è qualcosa che non le è stato possibile capire, perché l’amore per la figlia era in quella donna sicuramente subordinato all’amore per se stessa. Questo è ciò che pensa della madre mentre si affaccia all’età adulta. Sfugge al suo occhio vigile e giudice avvolgendosi nelle pieghe di una fede senza ipocrisia; compie una scelta che è un messaggio, la sua vita tutta diventa un monologo al quale colei con la quale sente di non poter interloquire sia almeno costretta ad assistere come spettatrice.

Quarant’anni dopo, ormai stretta irreversibilmente nelle morse della malattia, confessa alla sorella più piccola di sognare ancora la madre defunta: incubi in cui è ancora una bambina in balia della sua forza invincibile.

La temibile sfinge di questa storia è una nonna che non ho conosciuto, anche lei morta all’incirca a sessant’anni. Nei suoi ultimi anni di vita ha accudito il marito malato, preparandogli scodelle e scodelle di fragole con la panna, l’unica cosa che mio nonno mangiasse con desiderio. Nelle foto dell’epoca ha un viso tondo e sorridente, incorniciato da corti boccoli grigio-bianchi. Ci sono però anche vecchie foto in bianco e nero un po’ sbiadite che la ritraggono quando era ragazza: il suo sguardo non ha nulla della pacatezza della donna matura, è penetrante e sfrontato, affascinante e lievemente minaccioso.

Raccontava a mia madre bambina storie incantate su come presenze angeliche e spirituali sfiorassero le loro vite svelandone bagliori di significato, ma bastava poco perché si innervosisse e la sua collera era gelida e irremovibile. Una volta mia madre si attardò nel bosco a giocare in riva al lago e al suo ritorno la madre, furente per la sua sconsideratezza, la cacciò di casa, rispedendola nel bosco, mentre ormai la sera cominciava a calare. Mia madre racconta di aver camminato nella penombra con l’idea di raggiungere il paese oltre il bosco e di chiedere lì ospitalità a qualcuno per la notte. Nella realtà poi tornò a casa, ma di quel momento non ha ricordi. Mi ha raccontato questa storia piangendo come deve aver pianto allora, sconcertata dalla reazione materna.

In questa storia mia madre è una donna fragile, una bambina ferita che non è mai più tornata a casa. La storia con il suo primo fidanzato è una conferma di quel senso di abbandono che le era rimasto infitto nella memoria emotiva, la profezia dello sconosciuto sul tram è il desiderio più riposto e fragile che osa trovare voce.

Tutto cambia. Gli stessi fatti acquisiscono una valenza estranea. Persino mio padre diventa una persona diversa. Il giorno che segue la profezia di quell’uomo del tram – forse una proiezione della propria interiorità inespressa – la giovane donna che non era ancora mia madre incontra altri sconosciuti per strada. Sono giovani resi quasi incandescenti dai propri ideali. Lei è pronta ad abbandonarvisi. Non posso vedere dentro di lei in quel momento. So solo quello che mi ha raccontato e quello che ho immaginato. Ma non è facile stabilire quanto è affidabile un ricordo altrui rivissuto dalla mia mente. E repentinamente sembra probabile che quel nocciolo di grazia che ho descritto non sia mai esistito. Forse la sua memoria le ha semplicemente fornito un ricordo utile per avvalorare la scelta radicale che compì il giorno seguente, avvicinandosi a uno dei numerosi movimenti pseudo-religiosi che avevano grande presa sui giovani di allora e definiti dai non appartenenti con l’infamante epiteto di setta.

È sufficiente cambiare la definizione della realtà in cui mia madre ha vissuto per dieci anni perché tutta la sua storia appaia sotto una luce meno netta e l’alone di grandezza in cui l’ho descritta poco fa si trasformi in una nebbiolina ambigua. Avvolte da questa nebbia di inconsapevolezza diventano comprensibili la sua ansia, le richieste d’aiuto plateali e teatrali e le meschinità mascherate da fragilità. Le ombre si allungano non solo sulla sua storia, ma anche sulla mia vita mentre racconto a me stessa questa versione della sua.

Eccola trasformata in una ragazza ferita che non può trovare conforto nella fede materna – di cui le sono chiare le ipocrisie – alla disperata ricerca di un significato, facilmente affascinabile da un’utopica associazione interreligiosa. Eppure chi ne fa parte è affetto da una fede cieca, che ne è il vero fine. Un paradosso chiaro per chi lo osserva da una certa distanza, ma invisibile nell’entusiasmo prolifico e generoso della giovinezza, per cui la bellezza è ovunque la vita trovi uno scopo profondo o una causa ultima, mentre al di fuori si vede solo deserto. Hic sunt leones (qui vivono i leoni): come accadeva nelle antiche mappe del Mondo allora conosciuto, la realtà viene divisa nettamente in bianco e nero da chi non può sopportarne la complessità irriducibile. Mi chiedo se delineare confini netti non sia un bisogno intrinseco dell’uomo. Sarebbe più fedele alla realtà un mappamondo senza margini, materia mescolata alla materia che la circonda, ci darebbe un’immagine più verosimile del luogo in cui viviamo, ma non ci sarebbe utile. L’uomo ha bisogno di delimitare il reale in forme che veicolino un senso.

Si fa lo stesso anche con le persone, ma, in questo caso, con scarsi risultati: determinare il significato della vita di mia madre è in qualche modo una necessità per me, ma è una necessità frustrante, perché la sua storia, e forse ancor più la sua interiorità, si rivelano polivalenti e sfuggono al mio tentativo di attribuire loro un significato univoco. Così mi ritrovo ad avere non una, ma tante madri quanti sono i miei stati d’animo nei suoi confronti e la sua vita si frammenta in sempre nuove narrazioni a mano a mano che il mio rapporto con lei muta.

Lo straniero

Integrazione è una parola chiave della nostra epoca. Si oppone a xenofobia e scongiura gli estremismi.
Farla risuonare, copincollarla e ricinguettarla nell’aria e nell’etere è senz’altro una buona cosa, ma la rapidità, per non dire la simultaneità, con cui la comunicazione deve fare i conti oggi non permette che la riflessione in merito vada molto oltre a sondaggi sui social o proclami politici senza seguito alcuno.

Poiché mi trovo nella condizione di avere molto tempo libero in quanto neolaureata in cerca di occupazione e sono libera dalla pressione di dover produrre almeno un’opinione al giorno per tenere aggiornate le mie pagine social in quanto non ne posseggo, ho avuto modo di riflettere a lungo sulla questione e sono incappata in alcune constatazioni sulla mia situazione personale che credo illustrino più la mia condizione di essere umano che quella di individuo e che pertanto può essere utile condividere.

Mi spiego meglio. Ho sempre caldeggiato la necessità di attuare politiche e pratiche di integrazione con urgenza, poiché mi sembra che la paura del diverso sia qualcosa di istintivo e, in quanto tale, arginabile solo attraverso percorsi consapevoli di tale inciampo naturale. Nella mia mente questi pensieri suscitano immagini brulicanti e indaffarate di laboratori di confronto linguistico nelle scuole, ore di religione trasformate in ore di religioni, persino l’insegnamento della geografia potrebbe diventare improvvisamente l’occasione di rispondere o almeno di provare a rispondere a mille domande pressanti e interessanti (perché c’è un quartiere cinese in molte grandi città? Che cosa succede nei paesi da cui arrivano gli africani che vendono libri, braccialetti e accendini ai crocicchi e nelle piazze? Che cosa significa stato islamico? e così via).

È chiaro che nel mio pensiero l’integrazione passa attraverso la conoscenza. La paura dello straniero si vince rendendolo meno estraneo ai nostri occhi, avvicinandoci. Nel mio ragionamento tutto fila e io mi sento ottimista, vedo una direzione percorribile. Mi sento orgogliosamente parte di questo percorso quando mi informo sulla situazione politica del Burundi o quando sorrido impavida sulla metropolitana alla ragazza col ḥijāb seduta di fronte a me: gli estremismi saranno sconfitti.

È con tale slancio che ho dolorosamente sbattuto la testa contro una forma di estremismo inaspettata e a me talmente vicina da scuotere alle fondamenta tutta la teoria del conoscere e dell’avvicinarsi all’altro. Ho realizzato che nella mia vita l’unico spaventoso estremista di cui ho conoscenza diretta è mio padre, un uomo buono che ha deciso di dedicare la sua vita a dio e che sostiene di ricevere da lui indicazioni precise riguardo a come viverla. Seguendo queste indicazioni mio padre ha lasciato la sua attività commerciale per dedicarsi a un’inedita forma di pastorizia, incentrata con tale fermezza sul rispetto e sulla cura dell’animale e dell’ambiente in cui vive, da collidere frontalmente con più di una legge civile. Così, mentre la mia famiglia si dirigeva verso un graduale e inesorabile declino finanziario e affettivo, ho avuto modo di costruirmi, senza rendermene conto, una certa esperienza diretta con l’estremismo.

La prima osservazione che mi sento di fare è che l’estremista, pur essendo irragionevole, ha costruito una propria logica interna indistricabile e impenetrabile che ricorda in modo impressionante le scale chiuse su loro stesse rappresentate da Maurits Cornelis Escher. Quindi, benché mio padre mi sia vicino e sebbene io lo conosca e gli voglia bene, il nostro dialogo è claudicante e la comprensione reciproca irrealistica. Spesso mi sono interrogata sulle cause del suo estremismo. Talvolta mi sono detta che doveva essere colpa della sua ignoranza, altre volte ho pensato che fosse una reazione agli eventi traumatici e alle delusioni della vita, altre ancora mi è parso di vedervi una difesa da una solitudine esistenziale e ogni tanto ho pensato che si trattasse di una sua specifica forma di follia. Non so quale sia la risposta, ma in tutte queste eventualità c’è comunque un denominatore comune: ognuno di questi aspetti renderebbe o avrebbe reso l’interazione e l’integrazione sociale di mio padre estremamente difficile, se non talmente soverchiante da spingerlo a rinunciarvi e a preferire la sicurezza del suo mondo interiore, alla costruzione del quale egli dedica una cura esasperata.

Il rapporto con l’altro, anche quando costui non è uno straniero esotico che parla una lingua incomprensibile, è una realtà insidiosa, che richiede un esercizio faticoso e paziente e nel quale viene costantemente provato il proprio equilibrio personale. In esso nessuno è immune da ferite profonde e sottovalutare l’importanza di un’educazione costante e specifica in questo campo è sicuramente più rischioso dell’ignoranza delle lingue e dei costumi altrui.

De-siderio

La storia che qui si racconta ha radici profonde.
Il mondo era già antico: l’umanità nasceva allora.
Due esseri appena nati aprirono gli occhi dopo un sonno immemore e videro il luogo che li avrebbe accolti fino alla loro morte e per le generazioni a venire. Ciò che videro era la nostra Terra, vasta e apparentemente deserta.
Per un breve momento si guardarono attorno smarriti, poi la donna compì il gesto più antico, provò il sentimento più antico: volse il suo sguardo verso il cielo e vide le stelle, provò un’inspiegabile nostalgia.
In quel momento l’uomo la stava osservando e improvvisamente vide i suoi occhi accesi da milioni di luci e sul suo volto balenare un’espressione di dolente dolcezza: l’umanità, appena nata, conobbe le stelle, la nostalgia e l’amore.
Questo è ciò che avvenne in principio, ancor prima che essi avessero piena coscienza di sé.
Quale era la loro origine? Le stelle.
Vi avrebbero mai fatto ritorno? Le avrebbero sempre cercate.
Come? A questa domanda rispose per la prima volta il cuore dell’uomo. Perse l’equilibrio e sprofondò nelle vastità siderali degli occhi della donna, saltò un battito e si accorse di esistere.

Sogno

Sotto di noi c’era un antico borgo: poche case di tufo ocra e rame illuminate da luci arancioni, calde. Sicuramente era un luogo fuori dal tempo, dove si trovasse, non saprei dirlo. Tutto intorno si stendevano fino all’orizzonte colline d’erba blu, immerse nella notte.

Noi due galleggiavamo nell’aria, e, alla vista delle stelle che si facevano più vicine e luminose, lacrime ci rigavano il viso per l’emozione. Tu eri alla mie spalle. Le tue braccia sfioravano le mie, nell’aria fredda della notte, in un abbraccio d’ali nude. Le nuvole cambiavano forma sfilacciandosi, offrendoci nuovi squarci di cielo. I nostri occhi, resi neri e profondi dalla notte, erano accesi da milioni di luci cangianti.

Poi, con i cuori dissetati di nostalgia, tornavamo verso terra. Risate di vertigine ci scuotevano, mentre le dita dei piedi affondavano in ciuffi d’erba tenera, imperlandosi di rugiada.

E di nuovo saltavamo nell’aria per sorvolare uno specchio d’acqua e avvicinarci al nostro borgo. Decine di rane ci salutavano con gracidii e balzi, schizzandoci i polpacci d’acqua gelida. Lo stagno era il nostro mare ribollente e noi eravamo Poseidone canuto di spuma e la sua Anfitrite dalla chioma nera come l’abisso. I nostri capelli si mescolavano nel vento, trasformati in argento liquido dalle carezze della luna. Ma noi non eravamo alteri sovrani: il solletico dell’aqcua sulle gambe ci faceva rabbrividire in pose buffe e le nostre risate si mescolavano al coro di rane.

Scendevamo verso il suolo al margine del villaggio, dove le strade erano fiocamente illuminate e la luce non poteva ferire i nostri occhi di esseri notturni. Ci tuffavamo tra le fronde di un albero imponente e antico. Mentre poggiavo le piante dei piedi a terra, per non perdere l’equilibrio, afferravo uno dei sui rami. Tra le mani stringevo foglie spesse e carnose, ma soffici e vellutate.

Ti guardavo sorpresa e deliziata e il sogno svaniva.

Spazio per un ricordo

Cinque anni fa circa camminavo lungo una spiaggia deserta.

Per chissà quante persone in questo mondo immenso e vario sarà qualcosa di molto poco eccezionale, ma per una ragazzina cresciuta nella provincia di Milano le cui vacanze estive avevano luogo per lo più nel bel mezzo della Baviera è stato diverso.

Sylt non è un’isola selvaggia o sperduta, ma era la prima settimana di giugno, quindi nel Mare del Nord era decisamente bassa stagione.

Erano le undici di sera e il cielo era celeste. Una foschia primaverile e luminosa sfumava la linea dell’orizzonte nei colori dell’arcobaleno lì dove il sole era scivolato via poco prima.La sabbia sottile e fresca in cui affondavo fino alle caviglie a ogni passo si allargava pulita e non contaminata da altre presenze in ogni direzione. E il mare se la portava via, costantemente. Ogni onda scura orlata di schiuma che incontrava il frangente ne sottraeva una parte, in modo invisibile ma implacabile. Alle mie spalle l’erba che copriva le colline insisteva nel vano tentativo di tenere l’isola insieme, le lunghe radici affondate in profondità nella sabbia.

Per quella ragazzina, di lì a qualche giorno diciottenne, stare completamente sola su quella spiaggia sarebbe stato già abbastanza straordinario e immenso di per sé, ma sapere che l’isola, un istante per volta, veniva cancellata dall’acqua che la circondava ha trasformato un ordinario momento indimenticabile in qualcosa di più incisivo.

Ancora non vedo chiaramente che cosa mi abbia fatto e dove mi stia portando, ma solo oggi, dopo quasi cinque anni, ho capito che quel giorno, in cui tutto era immobile sotto i miei occhi e tuttavia mutava drasticamente senza mai fermarsi, mi ha cambiata in un modo così profondo che nemmeno io sono stata capace di sentirlo finora.

Sono passati cinque anni in cui ho ripensato spesso a quella sera, ma sempre e solo come a un momento indimenticabile e talmente bello da essere commovente. Cinque anni e le lacrime che mi salgono agli occhi ogni volta che lo ricordo non avevano mai avuto altro significato per me: solo un bel ricordo.

E dopo cinque anni mi ritrovo a cercare di capire che cosa mi stanno raccontando del mare dei linguisti tedeschi del secolo scorso o di due secoli fa che devo tradurre per una tesi di triennio per il resto non eccessivamente entusiasmente: i colori, la luce, la profondità del mare che descrivono con tanta accuratezza in una lingua che io comprendo con troppa approssimazione.

Non c’è nessun legame tra i loro tentativi di stabilire esattamente quale sfumatura della sua apparenza cercasse di descrivere Omero con delle parole antiche che nessuno, o quasi, ricorda più e questo mio ricordo, se non lo sforzo d’immaginazione che in entrambi i casi è stato necessario per fare almeno un tentativo di non parlare di un mare di carta. Per capire le loro parole, che nonostante le mie origini tedesche mi sono dolorosamente straniere, ho cercato nei miei ricordi un mare vero ed eccomi qui.

I miei pensieri mi hanno portata fuori tema, perciò sono venuta qui ad appuntare qualcosa che nella tesi non aveva spazio.