Tempo fa incontrai una donna la cui storia mi sembrò ineffabile. Viaggiavamo insieme in un pullman, diretto non ricordo bene dove, appartenente a una di quelle nuove compagnie che offrono trasporti su strada a prezzi stracciati a chi non teme un passaggio lungo e scomodo. La sua era una vita straordinaria come tante. A chi la conosce superficialmente, l’aggettivo più appropriato per descriverla sembrerebbe semplice. Tuttavia il suo sorriso è tutt’altro che semplice: scende abissalmente in profondità. Non saprei come descriverlo altrimenti (eccomi alle prese con l’ineffabilità di cui parlavo).
La conoscevo da anni, avevamo vissuto l’una in prossimità dell’altra, ma fu solo allora, nel suo primo viaggio in solitaria dopo un’intensa vita di madre e moglie, che la incontrai davvero per la prima volta. Tempo addietro un’amica pizia mi disse che avrei trovato le parole per raccontare la sua storia e io rimasi perplessa, come accade al cospetto di ogni vaticinio. Quando la incontrai anni dopo, con lo sguardo rivolto al paesaggio cangiante al di là del finestrino e i pensieri intenti all’analisi dell’ancor più cangiante suo animo, capii che un racconto aspettava e ricordai le parole profetiche.
Come ogni storia anche questa possiede un momento fatale a causa del quale invisibilmente prende una direzione ineluttabile: fu alla fine degli anni Settanta, nella ricca regione tedesca della Baviera, in una cittadina modesta, ma tangenziale alla gravosa storia recente poiché vicina a Norimberga, dove ebbe luogo una delle fasi confuse del post Seconda Guerra Mondiale, sotto la cappa di orrore che infestò le coscienze delle generazioni seguenti. È allo stesso tempo scioccante e consolante constatare come nemmeno le pagine più fosche della storia umana abbiano potuto impedire alla natura di fare il suo corso: la vita, inaspettatamente ma immancabilmente, prosegue. Di fronte a una tale barbarie l’umanità si sarebbe aspettata che il pianeta stesso si fermasse attonito in lutto e che il canto siderale mutasse per sempre in un epicedio, come un bambino al cospetto della morte della prima persona cara si aspetta che la scuola chiuda e i giornali nazionali ne riferiscano, come fanno per ogni notizia rilevante. Eppure, come accade per il fanciullo al suo primo lutto, anche l’aspettativa dell’umanità è stata disattesa dalla vita, che, a distanza di poco più di trent’anni, aveva ripreso il sopravvento.
Angelika era la più piccola di cinque fratelli e della guerra aveva conoscenza diretta solo attraverso gli strascichi lasciati sui membri più grandi della sua famiglia. La sorella maggiore, da cui la separavano vent’anni, sognava ancora di correre nel bosco stringendo la mano della madre e poi il sapore della terra in bocca mentre la donna le faceva scudo con il proprio corpo al cadere delle bombe. La gemella della madre, mentre fuggiva da quella che sarebbe diventata la Repubblica Democratica Tedesca, aveva visto schizzare sul muro accanto a sé le cervella di un uomo colpito alla testa da una pallottola e da allora non era più stata la stessa. Angelika la conosceva come una zia buffa e triste che si pettinava e agghindava prima di sedersi di fronte alla televisione, convinta di poter essere vista dai personaggi intrappolati nello schermo, e che svuotava le bottiglie del latte nel lavandino, nella speranza di riuscire a sfamare la voce disincarnata che dall’altro capo delle tubature le chiedeva disperatamente aiuto.
Angelika, allora appena ventenne, si innamorò di uno studente di medicina affascinante e sicuro di sé, dotato di una vitalità trascinante. In poco tempo abbandonò il suo appartamento da single e iniziarono a convivere, cosa che all’epoca provocò non poco scompiglio nella sua famiglia di immacolata fede protestante (certamente più del matrimonio del fratello, prima unione di un membro della famiglia con una donna cattolica e persino più vecchia di lui di qualche anno).
La loro storia era finita da qualche mese quando si compì l’istante fatale a cui ho già fatto cenno. Tradita, aveva perdonato l’amato disperatamente pentito solo per scoprire più tardi che la relazione con l’altra non si era mai interrotta definitivamente. Abbandonò l’appartamento di lui su due piedi, senza portare con sé nulla di ciò che avevano condiviso. Superò lo strazio delle prime settimane con fatica, ma determinata a tornare a se stessa e, trascorso qualche mese, il dolore, fattosi sordo, era ormai nella sua mente un rumore di fondo inascoltato in mezzo al frastuono degli interrogativi inebrianti e urgenti sul significato della propria vita. Fu sopra a questo rombo che si innalzò la voce di uno sconosciuto, scalfendo una traccia indelebile nella sua esistenza: «Non temere, un giorno avrai un uomo che sarà solamente tuo». Era una frase da chiromante, che appariva per questo ancor più strampalata pronunciata da un uomo di mezza età che scendeva al suo fianco dal tram, vestito in modo comune, né elegante né trasandato, con un sorriso piano, lontano. Un momento dopo era svanito. Non lo aveva di certo visto scomparire a mezz’aria, ma di fatto non riusciva a individuarlo nella folla che si avviava brulicante alle sue attività quotidiane.
Non un uomo, ma la propria strada era l’oggetto dei suoi tormenti interiori all’epoca. Turbata tuttavia da quello strano incontro e spossata dalle riflessioni spiraliformi che bivaccavano nel suo animo, stabilì che una decisione andava presa il giorno stesso. Scacciò i pensieri con determinazione e promise a se stessa, testimone l’universo tutto, che avrebbe dedicato la sua vita a ciò per cui era stata creata, senza esitazione, purché tale significato le si palesasse. Pianse di sollievo e gioia nell’affidare se stessa apparentemente al nulla, ma con la convinzione profonda di aver mosso il primo essenziale passo verso l’immenso. La solennità del momento era perfetta: nel tramonto occhieggiante fra gli alberi del parco cittadino cominciavano a rilucere le stelle serali. Tutta una vita racchiusa in un solo istante. Il passato e il futuro si condensarono allora in un nocciolo di grazia che si indurì a protezione di un segreto insondabile.
Il giorno dopo lasciò la sua vita precedente e a lungo visse alla giornata, trovando di giorno in giorno il suo spazio nel mondo, alla costante ricerca di se stessa e della comprensione dell’universale. Questo viaggio di scoperta durò dieci anni. Poi, come Odisseo, trovò un approdo. Sposò mio padre, incontrato sulle vie dei pellegrini, e nacqui io. La vita cambiò e per ventisei anni è stata una madre, senza mai smettere di indagare l’insondabile, nonostante svolgesse a tempo pieno e indeterminato, con devozione e dolcezza infinite, il più complesso e duro lavoro della storia dell’umanità. In questo tempo ha amato un uomo – forse, chi lo sa, riconoscendovi quello citato da uno sconosciuto su un tram tanti anni prima – e ha cresciuto tre donne in una lingua straniera. Solo oggi mi interrogo sulla solitudine di una madre che mai ha potuto conversare con le proprie figlie nel linguaggio avito.
Poi un giorno, mentre noi figlie compivamo o preparavamo lo stesso suo balzo irragionevole e inevitabile nel precipizio della vita, lei e lui si sono guardati negli occhi smarriti, senza più riconoscersi, col timore di non appartenersi più ed ecco che l’eco delle onde dell’oceano attraversato in giovinezza torna a chiamare. La solitudine pretende scelte fatidiche. Restare fermi è inconcepibile mentre l’abisso invoca il nostro nome con verso di sirena.
Ancora oggi, a una vita di distanza, in quel nocciolo di grazia sopravvive mia madre, la donna forte oltre le debolezze che ho conosciuto solo nel momento del suo addio, immaginandola nel pullman che l’ha portata via da me, dalla sua famiglia. Non per viltà, né per paura ci ha lasciati, ma per tenere fede alla promessa di rimanere viva in vita.
La chiamano grandezza o libertà, sogno o fede, è la via dell’eroe e del saggio. Le prime parole dell’umanità di cui conserviamo memoria ne cantano. I poemi epici e le tragedie d’Occidente, le preghiere e i miti d’Oriente, gli ultimi saggi della parola nei villaggi remoti di continenti ancora incompresi non hanno mai smesso di indagarne le vastità. Io ne vedo una traccia in lei, di questo mistero immenso che ci appartiene intimamente e ci sfugge in eterno. La vedo solitaria, nella mia mente, da lontano e non la comprendo, ma le sono legata da un sentimento profondo e desidero seguire i suoi passi, su un’altra strada.
Questo è ciò che io racconto a me stessa. È la mia versione della storia, una mescola di ricordi diretti, di desideri e sforzi di comprensione e di racconti materni risalenti a varie epoche della mia vita, talvolta rievocati nella mia memoria tanto numerose volte da risultare figli della mia fantasia più che delle parole che hanno generato tali ricordi.
Nei giorni in cui mi sento forte e solida questo è ciò che vedo se penso a lei.
II. Ianua
Capita talvolta che la storia mi appaia assai diversa.
In momenti del genere un umore incolore mi attanaglia e le mie memorie mutano drasticamente, nonostante io tenti di inchiodarle alle teche della mia mente come un collezionista fa con le farfalle.
I ricordi si trasformano mentre mi sforzo di trattenerli, come tanti Proteo che non si rassegnano al morso dei nodi. E, come Proteo, il vecchio vaticinatore marino, dopo un vorticare pazzo di forme, assumono nuovamente un aspetto stabile e, pur raccontando una storia diversa, parlano parole vere, almeno per una parte di me che non sa comprendere e perdonare.
Una donna spigolosa e non più giovane partorì a metà degli anni Cinquanta la sua quintogenita. È una donna enigmatica colei con cui abbiamo a che fare in questa storia, una sfinge indecifrabile: devota e fedele a Cristo, ma apparentemente egoista in modo inconciliabile con la sua fede, cosa di cui lei non sembra consapevole. Lo pensa anche la sua primogenita, all’epoca ventenne e in procinto di compiere una scelta che la separerà e la legherà allo stesso tempo definitivamente alla madre.
Mentre la sorella minore impara a camminare e parlare, lei lascia la casa natale per un convento, seguendo i pii insegnamenti materni, ma operando una cesura netta che segnali la sua rinuncia definitiva all’ego. Se la madre l’abbia amata durante la sua infanzia è qualcosa che non le è stato possibile capire, perché l’amore per la figlia era in quella donna sicuramente subordinato all’amore per se stessa. Questo è ciò che pensa della madre mentre si affaccia all’età adulta. Sfugge al suo occhio vigile e giudice avvolgendosi nelle pieghe di una fede senza ipocrisia; compie una scelta che è un messaggio, la sua vita tutta diventa un monologo al quale colei con la quale sente di non poter interloquire sia almeno costretta ad assistere come spettatrice.
Quarant’anni dopo, ormai stretta irreversibilmente nelle morse della malattia, confessa alla sorella più piccola di sognare ancora la madre defunta: incubi in cui è ancora una bambina in balia della sua forza invincibile.
La temibile sfinge di questa storia è una nonna che non ho conosciuto, anche lei morta all’incirca a sessant’anni. Nei suoi ultimi anni di vita ha accudito il marito malato, preparandogli scodelle e scodelle di fragole con la panna, l’unica cosa che mio nonno mangiasse con desiderio. Nelle foto dell’epoca ha un viso tondo e sorridente, incorniciato da corti boccoli grigio-bianchi. Ci sono però anche vecchie foto in bianco e nero un po’ sbiadite che la ritraggono quando era ragazza: il suo sguardo non ha nulla della pacatezza della donna matura, è penetrante e sfrontato, affascinante e lievemente minaccioso.
Raccontava a mia madre bambina storie incantate su come presenze angeliche e spirituali sfiorassero le loro vite svelandone bagliori di significato, ma bastava poco perché si innervosisse e la sua collera era gelida e irremovibile. Una volta mia madre si attardò nel bosco a giocare in riva al lago e al suo ritorno la madre, furente per la sua sconsideratezza, la cacciò di casa, rispedendola nel bosco, mentre ormai la sera cominciava a calare. Mia madre racconta di aver camminato nella penombra con l’idea di raggiungere il paese oltre il bosco e di chiedere lì ospitalità a qualcuno per la notte. Nella realtà poi tornò a casa, ma di quel momento non ha ricordi. Mi ha raccontato questa storia piangendo come deve aver pianto allora, sconcertata dalla reazione materna.
In questa storia mia madre è una donna fragile, una bambina ferita che non è mai più tornata a casa. La storia con il suo primo fidanzato è una conferma di quel senso di abbandono che le era rimasto infitto nella memoria emotiva, la profezia dello sconosciuto sul tram è il desiderio più riposto e fragile che osa trovare voce.
Tutto cambia. Gli stessi fatti acquisiscono una valenza estranea. Persino mio padre diventa una persona diversa. Il giorno che segue la profezia di quell’uomo del tram – forse una proiezione della propria interiorità inespressa – la giovane donna che non era ancora mia madre incontra altri sconosciuti per strada. Sono giovani resi quasi incandescenti dai propri ideali. Lei è pronta ad abbandonarvisi. Non posso vedere dentro di lei in quel momento. So solo quello che mi ha raccontato e quello che ho immaginato. Ma non è facile stabilire quanto è affidabile un ricordo altrui rivissuto dalla mia mente. E repentinamente sembra probabile che quel nocciolo di grazia che ho descritto non sia mai esistito. Forse la sua memoria le ha semplicemente fornito un ricordo utile per avvalorare la scelta radicale che compì il giorno seguente, avvicinandosi a uno dei numerosi movimenti pseudo-religiosi che avevano grande presa sui giovani di allora e definiti dai non appartenenti con l’infamante epiteto di setta.
È sufficiente cambiare la definizione della realtà in cui mia madre ha vissuto per dieci anni perché tutta la sua storia appaia sotto una luce meno netta e l’alone di grandezza in cui l’ho descritta poco fa si trasformi in una nebbiolina ambigua. Avvolte da questa nebbia di inconsapevolezza diventano comprensibili la sua ansia, le richieste d’aiuto plateali e teatrali e le meschinità mascherate da fragilità. Le ombre si allungano non solo sulla sua storia, ma anche sulla mia vita mentre racconto a me stessa questa versione della sua.
Eccola trasformata in una ragazza ferita che non può trovare conforto nella fede materna – di cui le sono chiare le ipocrisie – alla disperata ricerca di un significato, facilmente affascinabile da un’utopica associazione interreligiosa. Eppure chi ne fa parte è affetto da una fede cieca, che ne è il vero fine. Un paradosso chiaro per chi lo osserva da una certa distanza, ma invisibile nell’entusiasmo prolifico e generoso della giovinezza, per cui la bellezza è ovunque la vita trovi uno scopo profondo o una causa ultima, mentre al di fuori si vede solo deserto. Hic sunt leones (qui vivono i leoni): come accadeva nelle antiche mappe del Mondo allora conosciuto, la realtà viene divisa nettamente in bianco e nero da chi non può sopportarne la complessità irriducibile. Mi chiedo se delineare confini netti non sia un bisogno intrinseco dell’uomo. Sarebbe più fedele alla realtà un mappamondo senza margini, materia mescolata alla materia che la circonda, ci darebbe un’immagine più verosimile del luogo in cui viviamo, ma non ci sarebbe utile. L’uomo ha bisogno di delimitare il reale in forme che veicolino un senso.
Si fa lo stesso anche con le persone, ma, in questo caso, con scarsi risultati: determinare il significato della vita di mia madre è in qualche modo una necessità per me, ma è una necessità frustrante, perché la sua storia, e forse ancor più la sua interiorità, si rivelano polivalenti e sfuggono al mio tentativo di attribuire loro un significato univoco. Così mi ritrovo ad avere non una, ma tante madri quanti sono i miei stati d’animo nei suoi confronti e la sua vita si frammenta in sempre nuove narrazioni a mano a mano che il mio rapporto con lei muta.